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DOTTRINA - LAVORO E PREVIDENZA SOCIALE
Standard comportamentali del lavoratore
I cosiddetti standard di comportamento, sono stati enunciati da due recenti e discutibili sentenze della Corte di cassazione, così enunciando un principio in tema di giusta causa di licenziamento che, se confermato da sentenze successive, potrebbe portare a un assetto della materia nuovo e imprevedibile.

La vicenda trae origine da due distinti episodi, legati ad altrettanti licenziamenti per giusta causa, dichiarati illegittimi dal Tribunale. Le due sentenze del Tribunale sono state però annullate dalla Corte di cassazione, con i provvedimenti n. 10514 del 22/10/98 e n. 434 del 18/1/99.

Entrambe le sentenze della suprema Corte partono dalla nozione di giusta causa fornita dall'art. 2119 c.c., che consente il licenziamento in tronco allorquando si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro. Tuttavia, la Corte ritiene che questa definizione sia troppo generica e che, per integrarla, si debba far riferimento a regole della civiltà del lavoro, rinvenibili nell'insieme dei principi giuridici espressi dalla Corte di cassazione e che stabiliscono quali comportamenti, in un dato contesto storico - sociale, siano esigibili dalle parti.

Per questa via, secondo l'opinione della Corte, è possibile individuare standard di comportamento. Pertanto, nel caso di un licenziamento per giusta causa, il giudice di merito (Pretore o Tribunale) deve valutare la conformità a questi standard del comportamento, contestato al lavoratore licenziato. Inoltre, la suprema Corte ha il potere di controllare questo giudizio di conformità, eventualmente annullando la sentenza che abbia compiuto un accertamento errato.

Questi principi rappresentano una svolta che può portare a risultati imprevedibili. La giurisprudenza aveva sempre fornito, alla pur generica nozione di giusta causa, un contenuto assai prudente, legato al caso concreto, alla qualità delle parti, alla intensità del rapporto fiduciario che lega il lavoratore al suo datore di lavoro. Inoltre, si è sempre considerato che il licenziamento in tronco è una sanzione irrimediabile; pertanto, il giudizio di legittimità di un licenziamento per giusta causa presuppone l'accertamento, sempre da svolgersi nel caso concreto, che il rapporto di lavoro è definitivamente compromesso e non può essere ricucito.

Si vede bene, dunque, la svolta insita nelle pronunce della Corte. Per questa via, la suprema Corte conferisce a se stessa una sorta di potere legislativo, o quanto meno il potere di emanare, attraverso le proprie sentenze, una sorta di casistica di ciò che configura giusta causa di licenziamento, con effetti vincolanti per tutti. Il principio è dirompente, dal momento che la Corte non solo non ha - come è ovvio - potere legislativo, ma neppure ha il potere di vincolare, con le proprie sentenze, soggetti diversi dalle parti in causa.

Sotto un diverso profilo, il principio affermato dalla Corte ha esiti imprevedibili. Benché la Corte parta dalla esatta osservazione che la nozione di giusta causa fornita dalla legge è generica (ma non potrebbe essere diversamente), si finisce per prescrivere una terapia che rischia di essere peggiore del male. In altre parole, se l'obiettivo della Corte era quello di fornire certezza del diritto, il risultato che concretamente si ottiene è esattamente il contrario, dal momento che le c.d. regole della civiltà del lavoro sono, per forza di cose, evanescenti, disperse in una miriade di sentenze difficilmente catalogabili e, per di più, di volta in volta dettate da esigenze che tengono conto del caso concreto più che di una regola generale di comportamento. In buona sostanza, se dovesse prendere piede la teoria degli standard di comportamento, ogni lavoratore licenziato rischia di diventare ostaggio del giudice di cassazione che esaminerà la sua vicenda, e della sua personale opinione in ordine alle pretese regole della civiltà del lavoro.

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